I 5 punti del disastro annunciato
Come l’ego di Trump, il protezionismo americano e l’isolamento diplomatico stanno affossando l’Europa
1. Trump mantiene le promesse elettorali: una strategia che disorienta
La recente vicenda dell’incontro tra Donald Trump, il vicepresidente JD Vance e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, conclusosi in modo burrascoso, non è stata semplicemente un “incidente di percorso”. Al contrario, è il segnale inequivocabile che Trump – al suo ritorno alla Casa Bianca – sta perseguendo con estrema coerenza quanto promesso in campagna elettorale: riportare la politica estera degli Stati Uniti a un rigido schema di “America First”.
Perché è così importante sottolinearlo? Perché, a differenza di altri leader, Trump non appare minimamente intenzionato a ricucire i rapporti con alleati storici come l’Ucraina o a moderare i toni nel confronto diretto con l’Unione Europea. L’atteggiamento conflittuale, la retorica muscolare e la predisposizione a negoziare bruscamente nascono, prima di tutto, da una visione del mondo quasi “transazionale”: non c’è alleanza che tenga di fronte agli interessi nazionali americani, non c’è tema – dalla guerra in Ucraina all’estrazione delle terre rare – che non possa diventare merce di scambio per assicurare agli Stati Uniti un vantaggio geopolitico ed economico.
Questa linea politica risulta spiazzante per molti governi, soprattutto europei, che si erano abituati a una relazione privilegiata con l’America, fatta di sostegno reciproco e di coordinamento su dossier delicati (dalla sicurezza energetica alla gestione delle crisi internazionali). La promessa di “pensare solo agli Stati Uniti” è dunque diventata realtà, e lo scontro con Zelensky è servito a Trump per ribadire di fronte all’opinione pubblica statunitense che la difesa degli interessi americani ha priorità su qualsiasi altra considerazione diplomatica.
2. Lo scontro “vergognoso” nello Studio Ovale
La seconda fase dell’incontro, quando le tensioni sono esplose al cospetto delle telecamere, è stata definita “vergognosa” da più parti. Tradizionalmente, i leader mondiali evitano di far trapelare divergenze tanto forti negli appuntamenti ufficiali, e men che meno davanti alle televisioni. La diplomazia è un gioco raffinato: gli “sherpa” preparano i dossier, i tecnici studiano le bozze di accordo, e i capi di Stato si limitano ad apparire dinnanzi ai media come protagonisti di un dialogo costruttivo. Ma nulla di simile si è visto in questa vicenda. L’asprezza verbale, i toni alti, le reciproche accuse sono stati un vero e proprio schiaffo diplomatico, non solo a Zelensky, ma all’intera prassi delle relazioni internazionali.
Inevitabile che gli osservatori europei, e non solo, abbiano trovato l’episodio sconcertante e senza precedenti. Zelensky è arrivato vestito con la sua tuta militare, simbolo del conflitto in corso e della resistenza ucraina; Trump ne ha immediatamente criticato l’abbigliamento, con toni beffardi, come a sottolineare la propria insofferenza per il ruolo di “vittima” che l’Ucraina sta rivestendo sulla scena internazionale. L’accordo sulle terre rare, sul quale si era lavorato a lungo, è così saltato in diretta mondiale, lasciando dietro di sé un vuoto diplomatico difficile da colmare.
3. L’ego smisurato di Trump
Non è soltanto una questione di strategia politica o di scelte programmatiche: per comprendere pienamente la dinamica di questo scontro, bisogna fare i conti con l’ego di Donald Trump. È ormai noto che l’ex tycoon sia un maestro nell’utilizzare i media e la visibilità per rafforzare la propria immagine di leader “duro e puro”. Ogni confronto, ai suoi occhi, è un’opportunità per riaffermare chi comanda e per umiliare chi non si dimostra sufficientemente “remissivo” nei confronti della potenza statunitense.
Il fatto che Trump abbia interrotto Zelensky più volte, che lo abbia accusato di volere la “Terza guerra mondiale” e che abbia pubblicamente sminuito la situazione drammatica che vive il popolo ucraino, non è affatto casuale. Rientra in un copione ben collaudato, dove l’avversario (in questo caso, persino un alleato “storico” nella lotta contro Mosca) viene trattato come un partner subalterno. La diplomazia, nelle parole di Trump, è quasi un’appendice dell’uso brutale del potere: spetta a chi è più forte – cioè l’America – dettare le regole del gioco. Se l’interlocutore non si adegua, l’incontro finisce, magari tra insulti e accuse reciproche.
4. Il contraccolpo per l’Europa e l’Italia: imprese in bilico, protezionismo minaccioso
Questa posizione di chiusura e di autosufficienza ostentata dagli Stati Uniti potrebbe avere ripercussioni rilevanti per l’Europa, a più livelli. In primo luogo, sul piano strategico: qualora Washington dovesse allentare il sostegno militare e finanziario a Kiev, le forze ucraine si troverebbero in seria difficoltà. Uno scenario del genere, con un’Ucraina indebolita, riaprirebbe il gioco a Mosca, alimentando l’idea che Putin possa riprendere l’avanzata o alzare ulteriormente la posta sul piano diplomatico. Per l’Europa, ciò significherebbe una maggiore instabilità alla frontiera orientale, con nuovi flussi migratori, tensioni politiche interne ai Paesi UE, e il rischio di un’escalation militare in aree vicine a nostri partner commerciali.
Le conseguenze economiche, in particolare per Italia, Germania, Francia e altri grandi Paesi europei, sarebbero potenzialmente devastanti. Molte imprese UE hanno investito ingenti capitali in Ucraina, soprattutto nei settori agricolo, metallurgico ed energetico. La prospettiva di un conflitto prolungato – o di un abbandono degli aiuti americani – potrebbe far salire alle stelle i costi di produzione e la volatilità sui mercati delle materie prime, spingendo molte aziende a ridimensionare o addirittura chiudere le attività in quell’area.
A ciò si aggiunge il nodo delle terre rare, campo in cui l’Ucraina stava iniziando a ricoprire un ruolo strategico proprio grazie ai dialoghi in corso con gli Stati Uniti. Se l’accordo è saltato, l’Europa rischia di perdere un fornitore importante per molte aziende hi-tech e meccaniche. Non potendo contare su partner affidabili in Ucraina, i Paesi europei potrebbero ritrovarsi ancora più dipendenti dai mercati asiatici, con possibili rincari dei prezzi delle componenti elettroniche, riduzioni di competitività per i produttori di automobili e dispositivi tecnologici, e un ulteriore aggravio sulle catene di approvvigionamento.
In Italia, in particolare, le imprese di medie dimensioni che esportano verso l’Est Europa o che avevano pianificato partnership in settori emergenti (come quello della transizione energetica e della componentistica) temono un impatto più che significativo. Alcune di esse avevano già sofferto per la contrazione dei mercati a causa della pandemia e confidavano in una ripresa trainata anche dalle opportunità offerte dalla ricostruzione ucraina. Ora, di fronte all’incertezza sulla durata del conflitto e all’ipotesi di minori finanziamenti e sostegni internazionali, molte potrebbero dover rivedere i piani d’investimento, tagliare personale o ritardare lo sviluppo di nuovi prodotti.
A complicare ulteriormente lo scenario per l’Europa non è solo la strategia americana in Ucraina, ma anche l’approccio economico di Trump, ormai deciso a rilanciare il suo “America First” con un programma di dazi e protezionismo commerciale che potrebbe colpire duramente il vecchio continente.
Trump ha già annunciato l’intenzione di imporre tariffe doganali punitive su prodotti europei, specialmente nel settore automobilistico, manifatturiero e agroalimentare. Un’eventualità del genere creerebbe una guerra commerciale tra Stati Uniti ed Europa, con conseguenze gravissime per le imprese del nostro continente, molte delle quali esportano gran parte della loro produzione proprio verso il mercato americano.
La Casa Bianca sembra sempre più intenzionata a riportare in patria le produzioni strategiche, riducendo la dipendenza da importazioni straniere. Ma la verità è che il protezionismo esasperato non rafforza l’economia globale: al contrario, frena gli scambi commerciali, crea instabilità e finisce per danneggiare anche le imprese americane stesse, che si troveranno con meno fornitori e prezzi più alti.
Per l’Europa e per l’Italia, il ritorno del protezionismo americano significherebbe:
Una riduzione dell’export verso gli Stati Uniti, in particolare per settori chiave come l’automotive (colpito da possibili dazi sulle auto europee), il lusso e il settore agroalimentare (dove già in passato Trump aveva imposto restrizioni).
Un aumento dei costi delle materie prime, poiché il restringimento degli scambi globali porterebbe a una competizione più forte per accaparrarsi forniture strategiche, come acciaio, terre rare e semiconduttori.
Meno investimenti diretti dagli USA, con le aziende americane meno inclini a investire in Europa se i rapporti commerciali dovessero incrinarsi.
A rendere ancora più preoccupante il quadro è il fatto che l’Europa non sembra attrezzata per rispondere con fermezza a questa nuova ondata di protezionismo.
L’Unione Europea deve prendere atto che gli Stati Uniti non sono più il partner affidabile di una volta e iniziare a costruire una politica industriale ed economica più autonoma.
Se Trump riuscisse davvero a spingere gli USA in una direzione isolazionista e protezionista, l’Europa rischierebbe di trovarsi stretta tra una Russia sempre più aggressiva e una Cina in crescita, senza più il sostegno di un’America affidabile.
5. I limiti di un potere senza freni
Questo clamoroso incontro-scontro mette in luce l’anima più pericolosa della politica di Trump e, per riflesso, la fragilità dell’attuale scenario internazionale. Da una parte abbiamo un presidente americano che, pur di marcare il proprio dominio, non esita a demolire in pubblico un alleatoamico come l’Ucraina, offrendo un assist mediatico alla propaganda russa. Dall’altra, un’Europa indebolita, costretta a rincorrere i capricci di un leader che pare avere come unico orizzonte la celebrazione di sé stesso e l’esaltazione della potenza statunitense.
In un contesto in cui le tensioni geopolitiche sono in aumento, la mancanza di una voce europea unanime e autorevole rischia di lasciare campo libero a chi, come Putin, punta ad approfittare delle divisioni occidentali. Le imprese italiane ed europee, principali vittime di questo caos, vedono allontanarsi la prospettiva di una stabilizzazione economica che sarebbe essenziale per programmare investimenti e nuove partnership. È un danno non solo economico, ma culturale e strategico, perché scardina quei princìpi di collaborazione e solidarietà su cui l’Europa si è a lungo fondata.
Di fronte a tutto ciò, la comunità internazionale e i leader europei non possono limitarsi a qualche dichiarazione di circostanza. È indispensabile premere sugli Stati Uniti affinché ritrovino il senso della misura: un potere incontrastato e privo di freni non fa altro che generare instabilità. La storia ci insegna che l’ego di un uomo, quando incontra la debolezza degli interlocutori, può condurre a scenari ben più bui di un semplice litigio nello Studio Ovale.
E se l’Unione Europea non riuscirà a far valere la propria autonomia diplomatica ed economica, rischiamo di trasformare le fragili prospettive di pace – e di rilancio post-bellico – in un’amara e pericolosa illusione.